The Dark Side of the Moon, 50 anni guardando al futuro

The Dark Side of the Moon, 50 anni guardando al futuro

The Dark Side of the Moon, 50 anni guardando al futuro

Il capolavoro dei Pink Floyd, dall’iconica cover creata da un graphic designer

E pensare che “The Dark Side of The Moon” è il titolo di un album pubblicato nel 1972 dai Medicine Head, una band inglese di heavy rock, che con questo disco fecero un flop e che oggi non ricorda più nessuno. Un destino opposto a quello toccato ai Pink Floyd che celebrano i cinquant’anni di uno dei capolavori assoluti della musica, un’opera che va ben al di là del rock. Già perché “The Dark Side of the Moon” era il titolo che Roger Waters, David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason avevano in testa per quel nuovo progetto che avrebbe cambiato le loro vite e spostato molto in avanti il concetto di registrazione. Furono bruciati sul tempo dai Medicine Head e così venne scelto “Eclipse”: poi, dopo il già citato flop, tornarono all’idea originale aggiungendo così un’altra tessera giusta a un mosaico che risulterà perfetto, l’aggettivo usato più spesso per definire quest’opera che è uno dei titoli più venduti di sempre e che dal primo marzo 1973 ad oggi è rimasto in classifica quasi ininterrottamente.

“The Dark Side of The Moon” è una magica combinazione di idee musicali, tecnologia, art design e di quell’immaginazione visionaria che fin dai suoi esordi era il tratto caratteristico della band, ma che in questo caso coglie non solo lo spirito di un tempo già in trasformazione ma riesce a fissare su vinile una musica che ha vinto la sfida del tempo. La copertina è una delle più iconiche della storia del rock. Creata dal graphic designer inglese George Hardie con il contributo di Storm Thorgerson e Aubrey Powell dello studio Hipgnosis, rappresenta un raggio di luce bianca che, attraverso un prisma, con l’esclusione dell’indaco, si scompone nei suoi colori costituenti, rosso, arancione, giallo, verde, blu e viola. All’interno della copertina il raggio forma il battito cardiaco dello spettro luminoso che richiama quello che apre l’album. I temi di fondo sono quelli che caratterizzeranno poi la produzione successiva: la pressione esercitata dal potere, il denaro, il senso di smarrimento, la follia, ovviamente legata alle condizioni di Syd Barrett, il “Crazy Diamond” che aveva fondato la band e che già allora si era chiuso nei labirinti della sua mente.

Come tutti i capolavori che si rispettano, anche “The Dark Side of The Moon” ha una storia fatta di episodi imprevedibili e alcuni di questi riguardano, direttamente o indirettamente, Alan Parson, il geniale ingegnere del suono che ha creato il paesaggio sonoro dell’album, lavorando con lametta e nastri, arrivando a concepire l’idea, folle per l’epoca, di registrare in quadrifonia, una tecnologia che di fatto non solo non era disponibile nel 1973 ma ancora oggi può essere utilizzata solo per eventi e in condizioni particolari. Durante le registrazioni Parson si trovò spesso a lavorare da solo in studio, perché Roger Waters guardava le partite del “suo” Arsenal ma soprattutto i Pink Floyd non si perdevano una puntata del “Flying Circus” dei Monty Python che allora spopolava sulla Bbc tanto che la band, insieme ad altre rockstar, contribuì al budget del loro primo film, l’esilarante “Monty Python e il Sacro Graal”. Parson per questo straordinario lavoro ebbe una nomination al Grammy, ma vide incrinarsi il rapporto con la band che pubblicamente non riconobbe in pieno i suoi meriti: fu allora che decise di mettersi in proprio con l’Alan Parson Project.

Anche la ormai leggendaria parte vocale di “The Great Gig In The Sky” ha il suo debito nei confronti del caso e, tanto per cambiare, è legata a strascichi legali. L’idea era di aggiungere una voce femminile al brano: Alan Parson chiamò Clare Torry, una vocalist da studio di registrazione che all’epoca aveva 22 anni. La Torry registrò le sue tracce e dopo una paio di session fu liquidata con 60 sterline: sembra che fosse addirittura intenzionata a scrivere un messaggio di scuse alla band perché riteneva che la sua performance potesse risultare troppo enfatica. Solo a pubblicazione avvenuta si rese conto che il suo nome faceva parte dei credits dell’album: la vicenda è proseguita nei tribunali fino al 2005, quando un giudice ha riconosciuto i mancati guadagni della Torry attribuendole il 50% della proprietà del brano e il 50% dei diritti rendendola milionaria. L’aneddotica è sterminata: “Us and Them” per esempio era stata scritta da Richard Wright per “Zabriskie Point” ma Antonioni la rifutò, “Money”, con tutti quei rumori e clangori e suoni di registratori di cassa voluti da Waters e registrati in modo analogico, è uno dei 7/4 più celebri della storia del rock (“ma per l’assolo di chitarra, ha ricordato David Gilmour, siamo tornati al 4/4 per rendermi le cose più facili”).

Come tutti gli autentici capolavori, “The Dark Side of The Moon” dopo 50 anni mantiene intatta quell’aura speciale che porta la musica in un altrove che i tantissimi studi e le ricostruzioni più accurate non riescono a cogliere perché rimane insondabile. Un’opera pensata come un concept album senza singoli (“Money” uscì negli Usa per iniziativa della casa discografica) asciugando le performance dalle lunghe improvvisazioni strumentali che caratterizzavano la musica dei Pink Floyd, ottenendo così una sintesi meravigliosa, perfetta e dagli effetti stupefacenti, perché il primo marzo del 1973 da un disco in vinile è scaturita la lingua del futuro.