Storia di un altro piccolo gioiello abbandonato. Storia di “Villa Ebe” abbandonata. L’eclettico architetto urbanista napoletano Lamont Young già nell’ottocento si sentiva incompreso, figurarsi cosa penserebbe oggi nel vedere in che condizioni versa la sua splendida creatura; un piccolo maniero divorato dal degrado e dall’abbandono sul fianco occidentale del monte Echia. Una splendida costruzione in un eclettico stile misto neogotico-dannunziano prima vandalizzata e sfruttata dai senzatetto e poi distrutta da un violento incendio doloso nel 2000 che ne ha cancellato gli interni e la splendida scala elicoidale.
Molti lo conoscono come “Castello di Pizzofalcone” e doveva essere restaurato secondo un progetto già finanziato, ma qualche anno fa il Comune di Napoli perse colpevolmente più di 11 milioni di fondi europei per incapacità amministrative e non se ne fece più niente. A “Villa Ebe” erano destinati 3 milioni e 340 mila euro e a Giugno 2007 il Sindaco Iervolino tuonò contro la sua stessa Giunta lavandosene le mani quando in realtà dimostrò di non essere informata dello stato di avanzamento dei progetti.
La palla passò alla Regione che annunciò il recupero del sito ma alla fine dello scorso anno arrivò una nuova doccia fredda per chi sperava nell’operazione. Il progetto fu uno dei 107 bocciati fra i 358 che componevano la delibera anticrisi della Regione.
E così le rampe Lamont Young, già queste bisognose di riqualificazione, portano al cancello della palazzina aggredito da piante incolte e serrato con un lucchetto. Vista dall’esterno, la struttura sembrerebbe a posto ma dalle finestre senza infissi si intravedono le condizioni dei vani interni sorretti da travi di legno incendiate e pericolo di crollo.
Sul portoncino d’ingresso campeggia beffarda la decorazione su cui è inciso “Lamont Young utopista inventore ingegnere di una Napoli moderna”.
Sul Monte Echia, luogo simbolo per la nascita del mito di Partenope, c’è anche chiusa, abbandonata e in pericolo la chiesa dell’Immacolatella a Pizzofalcone, affettuosamente chiamata dagli abitanti del posto “delle Montagnelle” così come viene appellata tutta la zona. Costruita nel ‘500 con il nome di Regia Cappella del Santissimo Rosario e, quindi, parrocchia per le truppe vicereali alloggiate nell’ex villa Carafa. A metà dell’800, per volontà di re Ferdinando II, è stata totalmente rifatta e, nel 1859, è stata dedicata all’Immacolata Concezione come ha ricordato Giuseppe Sigismondo nel suo volume Descrizione della città di Napoli e suoi borghi pubblicato in Napoli presso i fratelli Terres nel 1788 “A fianco dell’Officio Topografico colla prospettiva volta a levante è la chiesa Parrocchiale, detta per lo addietro del SS. Rosario, per comodo della soldatesca e di tutti coloro che alloggiano nel quartiere di Pizzofalcone. Essa è stata di recente riedificata di pianta con più larghe dimensioni nel giro di tre anni, con la spesa di diciottomila ducati per la Reale munificenza, e per le indefesse cure del Parroco Pietro Scaramella”. Il monarca, inoltre, ha affidato l’incarico a Francesco Jaoul, architetto che, nel 1839, era stato insignito della medaglia d’argento di primo ordine così come riportato dagli Annali civili del Regno delle Due Sicilie. Il suo progetto, realizzato con la demolizione della vecchia chiesa, ha previsto e poi realizzato, un tempio con la pianta a croce greca, cinque altari sormontati da tele eseguite da Giovanni Girosi, Luigi Rizzo e Raffaele Spanò. Proprio Spanò ha eseguito il quadro di San Francesco di Paola: unico quadro superstite a degrado e furti, oggi conservato nella chiesa di Santa Maria Egiziaca a Pizzofalcone. Una chiesa bella, come belle sono le chiese fatte da artisti con il dono della fede che, allora, certo non mancava, e, tocco da togliere il fiato, la gradinata d’ingresso che offriva una vista mozzafiato su tutto il golfo di Napoli: da Mergellina fino al parco marino di Punta Campanella di Massa Lubrense! L’orrore della seconda guerra mondiale dello scorso secolo, però, ha chiesto il suo pesante tributo anche alla chiesa delle Montagnelle quando una bomba, sganciata dagli americani in uno dei raid che hanno martellato e distrutto Napoli, l’ha centrata in pieno. Un vero dramma per il popolo affezionato da secoli al proprio tempio. Con il sacrificio di tutti, però, è stata subito restaurata e riaperta al culto pochi anni dopo il termine del conflitto. Le vicissitudini per quel luogo sacro non erano, però, terminate. Il terremoto del 1980 l’ha duramente compromessa e il mancato intervento di ripristino ha creato gravi problemi di stabilità facendo venir meno l’agibilità. In 40 anni nessuno è stato in grado di reperire fondi e restaurarla, nel frattempo gli spogli, i furti e i vandali hanno completato la triste opera. Restano gli altari in marmo coperti da stucchi e laterizi crollati, la sporcizia lasciata dai barboni e sbandati d’ogni sorta che l’avevano eletta a proprio rifugio e latrina! Nessuna traccia dei preziosi dipinti, mandato in frantumi il tabernacolo.
La Villa di Licinio Lucullo era una villa romana di Lucio Licinio Lucullo edificata nel I secolo a.C. a Napoli. L’estensione della villa andava dall’isolotto di Megaride fino al monte Echia sul lato sud e, molto probabilmente, stando agli ultimi rinvenimenti archeologici, sul lato sud-est anche fino al circondario del Maschio Angioino, nei pressi di piazza Municipio.
La villa era dotata di laghetti di pesci e di moli che si protendevano sul mare, di una ricchissima biblioteca, di allevamenti di murene e di alberi di pesco importati dalla Persia, che per l’epoca erano una novità assieme ai ciliegi che il generale aveva fatto arrivare da Cerasunto.La villa divenne così celebre per i suoi banchetti, tanto che ancora oggi esiste un aggettivo in lingua italiana “luculliano”, che sta ad indicare un pasto particolarmente abbondante e delizioso.