Nel suo nuovo romanzo Kreuzbach, Federica Baglivo Weßel affronta con rigore e profondità uno dei nodi più delicati della storia europea: il rapporto con il passato nazista. Ambientato in una cittadina che cerca di rimuovere la propria complicità, il libro riflette sul potere in tutte le sue forme, sull’estremismo giovanile e sulla fragilità della democrazia quando smette di ascoltare. Un’opera che interroga il presente attraverso la lente della memoria, come ci racconta l’autrice in questa intervista.
Uno dei nuclei centrali del romanzo è il rapporto ambiguo che la cittadina ha con il proprio passato nazista. Come hai affrontato la scrittura di un contesto storico così delicato?
Studio il nazismo da quasi venti anni e mi interessano molto sia la sua elaborazione che i suoi riflessi nel presente. Kreuzbach è l’archetipo della città i cui abitanti cercano di seppellire tutto sotto cumuli di indifferenza, come se la tragedia non fosse mai successa e soprattutto non sulla loro complicità. Ma lei invece sa che questo atteggiamento è molto pericoloso, perché evita di interrogarsi sul modo in cui tali ideologie arrivano al potere e su quali sono le precauzioni da prendere per evitare che la storia si ripeta. Mi viene naturale parlare di queste cose chiamandole per nome, come fa lei: il nazismo non è simpatico folklore ed edulcorarlo è, oltre che irrispettoso, altamente rischioso.
Nel libro si riflette su quanto la responsabilità non sia solo dei carnefici, ma anche di chi ha scelto di non vedere. Quanto è difficile, oggi, parlare di colpa collettiva senza cadere nella retorica?
Max Mannheimer, sopravvissuto alla Shoah, disse ai giovani tedeschi che non avevano ovviamente colpa per quello che era successo, ma responsabilità che non succedesse di nuovo. Qui non si parla di dare la caccia ai colpevoli, ma di comprendere determinati meccanismi. Nessun regime, non importa quanto dispotico sia e quali strumenti du repressione abbia a disposizione, può rimanere al potere senza un minimo di consenso da parte della popolazione, non funziona, nemmeno la Gestapo può imprigionare o sparare a un intero paese. Il punto è quindi capire come difendere la democrazia da rigurgiti estremisti: le costituzioni europee, figlie della seconda guerra mondiale, sono oggi molto avanzate in questo senso, ma neppure la migliore costituzione al mondo sopravvive senza essere difesa e protetta. Il nostro compito è quindi istruire, indagare la fascinazione per certe idee e poi contrastarla con gli strumenti che abbiamo a disposizione. Il primo passo è capire che i totalitarismi non cadono dal cielo e che tutti possono cascarci, anche noi.
L’estremismo giovanile che affiora in alcune pagine sembra figlio di una mancanza di risposte. È un monito, secondo te, anche per l’attualità politica europea?
Certo. I giovani tendono sempre verso posizioni più estreme, ma oggi in particolare assistiamo a un preoccupante spostamento verso i bordi dello spettro democratico. Se i ragazzi non ricevono risposte dalla politica tradizionale e dalla società tutta, le cercheranno altrove, in chi promette libertà, riscatto, in chi sembra parlare di loro e per loro, con argomenti semplici e una retorica accattivante. Questo vale anche per l’abitudine che si è presa di tirare forzatamente in direzioni ritenute giuste senza preoccuparsi di portare con sé il popolo e in particolar modo la gioventù. Questo allarga il divario fra la classe politica e i giovani elettori, che non si sentono rappresentati né ascoltati e hanno l’impressione di sentir parlare solo dei problemi di esigue minoranze e di non poter manifestare apertamente le loro convinzioni e i loro disagi. Vietare non è mai servito a nulla, bisogna confrontarsi, spiegare e se è necessario fare un passo indietro.
Il potere, in Kreuzbach, sembra avere molte facce: istituzionale, ideologico, psicologico. Cosa ti interessava esplorare maggiormente attraverso questo intreccio di piani?
La complessità della realtà. Quando il potere istituzionale non funziona come dovrebbe, lascia degli spazi che saranno occupati da altri tipi di potere. Se nel suo piccolo Claudius si affida al fratello non ricevendo la guida e le attenzioni da parte dei genitori, così succede anche al popolo che si sente abbandonato dalla politica. La parte di Kreuzbach che non viene considerata dal sindaco e dal governo cittadino si affida al potere delle bande neonaziste, che fanno paura ma in un certo qual modo affascinano. In economia si dice che le sacche di domanda insoddisfatte per via di una riduzione arbitraria dell’offerta si andranno a sfogare altrove, anche cercando soluzioni illegali e pericolose. La democrazia dovrebbe stare molto attenta a non generare questo “buchi”, perché non rimarranno vuoti a lungo.
Nel finale, più che una chiusura, sembra emergere un invito a guardare oltre l’apparenza e interrogarsi. Che tipo di riflessione ti auguri lasci nel lettore una volta terminato il romanzo?
Vorrei che riflettesse sul suo ruolo nel mondo e nella storia, sul fatto che, per quanto si senta piccolo e insignificante, con il suo impegno e la sua costanza ha sempre la possibilità di cambiare le cose. Vorrei che fosse più consapevole della realtà intorno a lui, dei meccanismi della politica e della sua influenza su tutti, anche su quelli che se ne disinteressano. Che trovasse la forza di lottare per quello che gli sta a cuore e che ritiene giusto. Di essere un’aquila, insomma.