Il debutto di Michela Ricciutelli: un viaggio dentro ‘La Mossa della Regina’

In occasione dell’uscita de “La Mossa della Regina” abbiamo avuto il piacere di intervistare la scrittrice Michela Ricciutelli.

Quando hai scoperto la tua passione per la scrittura e cosa ti ha spinto a diventare una scrittrice?

Mia madre racconta sempre che a un anno e mezzo mi trovava spesso con un libro davanti, intenta a fingere di leggere. Lei era un’insegnante di scuola dell’infanzia e mi insegnò a leggere e scrivere molto presto, assecondando quella mia voglia di imparare. Da allora si può dire che io non abbia mai smesso di scrivere, prediligendo la parola scritta a quella parlata che, invece, mi trova tuttora a disagio. Per me scrivere è sempre stato semplice, come per altri lo è danzare o disegnare. Quando lessi “Piccole donne” mi innamorai di Jo e sognai di diventare anch’io una scrittrice da grande. Poi la vita mi ha portata a fare tante altre cose, ma nel frattempo leggevo, leggevo tantissimo, e capivo come volevo scrivere. E, soprattutto, come non volevo scrivere. Era una specie di gestazione in cui si affinava il mio stile. La scrittura rimaneva il mio sogno e, quando ho avuto la serenità e il tempo per farlo, ho deciso di dedicarmici seriamente.

Il romanzo La Mossa della Regina sembra mescolare abilmente diversi generi, tra cui il giallo, il paranormale e il drammatico. Come hai gestito questa varietà di elementi narrativi durante il processo di scrittura?

Ho fatto appello alle diverse sfaccettature della mia personalità. Al mio rigore e alla mia razionalità per il giallo. Alla mia passione per il mistero per il paranormale. E alla mia tendenza all’introspezione e all’osservazione disincantata dell’esistenza per il drammatico.

Ci sono stati dei personaggi o degli eventi nel romanzo che hai trovato particolarmente gratificanti da sviluppare? Se sì, quali e perché?

È stato gratificante sviluppare i percorsi dei personaggi che maggiormente risentono di problematiche psichiche, ma mi è piaciuto molto anche dare delle pennellate su usi e costumi della mia terra d’origine.

La Mossa della Regina presenta una serie di temi complessi, tra cui la colpa, il perdono, la vendetta e la redenzione. Qual è il messaggio principale che speravi di trasmettere ai lettori attraverso queste tematiche?

Premetto che io scrivo perché amo raccontare e non parto mai con l’idea di trasmettere dei messaggi. In questo caso, però, ero consapevole che, trattando anche di problematiche psichiche, stavo affrontando una tematica sociale e ho sentito una responsabilità in tal senso. Da anni osservo i cambiamenti della società nel rapportarsi alle problematiche mentali e, se da una parte qualcosa mi conforta, dall’altra penso che ci sia ancora tanto da fare. Mi guardo attorno e con amarezza constato che molti di coloro che non deriderebbero un individuo con una mutilazione fisica si burlano del conoscente che conta gli scalini, di quello che si lava ripetutamente le mani, di quello che tre volte alla settimana fa la fila dal medico terrorizzato. Molti di coloro che si mostrano, almeno all’apparenza, inclusivi nei confronti della disabilità fisica, non lo sono altrettanto nei confronti dei disturbi psichici. Chi soffre di un disturbo finisce ancora oggi per isolarsi perché la sua esistenza è costellata da estenuanti appelli alla sua forza di volontà. Non si chiede a una persona senza gambe di correre ma ci si aspetta che, con un semplice schioccare di dita, un individuo con un DOC da contaminazione si sieda con spensieratezza su una panchina pubblica, che un ipocondriaco smetta di farsi analisi, che una persona depressa che se ne sta a fissare il soffitto spalanchi la porta e vada come niente fosse a farsi una passeggiata, che una persona con un DCA mangi allegramente un gelato. Si ricorda loro che la vita è bella, che fuori c’è il sole, che non bisogna essere ingrati, che la zia del loro amico è morta di cancro e loro invece sono fortunati perché sono in salute, e soprattutto che devono fare un atto di volontà e “vincersi”. Quante volte chi soffre di un disturbo ha sentito questo verbo terrificante? “Vincersi”. Un verbo che lo fa sentire un perdente se non ce la fa, che gli inculca il senso di colpa che si aggiungerà al suo tormento e, in un circolo vizioso, andrà ad alimentare il disturbo. Nessuno vuole star male. Chi sta male è perché non può star bene. Non perché non voglia o non sappia: non può. Chi non soffre di alcun disturbo non è migliore, non è più intelligente o più forte o più volenteroso, è solo più fortunato, alla stessa stregua di come è fortunato chi gode di buona salute fisica. Uno dei protagonisti del mio romanzo soffre di disturbo ossessivo compulsivo e qualunque individuo con un DOC si riconoscerà nelle sue problematiche. È un uomo intelligente, consapevole, inoffensivo, efficiente nel suo lavoro, buon padre di famiglia, ma non può sottrarsi ai suoi rituali. Forse oggi, con un percorso terapeutico, il suo disturbo potrebbe migliorare, forse no, ma lui vive ancora in un’epoca in cui dallo psichiatra vanno i “matti” e può solo barcamenarsi per conciliare la quotidianità di ligio impiegato e padre di famiglia con le tempeste che si scatenano nella sua mente. Il mondo è pieno ancora oggi di Scarsella che si affannano a nascondere agli altri i propri tormenti e che, al disvelarsi di questi, verrebbero derisi anche dai familiari e dagli amici. La chiave di volta è parlare e scrivere di disturbi psichici come si è fatto con la disabilità fisica, diffondere conoscenza e rispetto. Nel mio piccolo, ho fatto di un ossessivo compulsivo il protagonista di un libro.

Hai in programma di scrivere altri romanzi in futuro?

Ce n’è uno già terminato e in fase di revisione.