Con “Pelle di Prozac”, Luca V ci accompagna in un viaggio intimo e tormentato, dove l’anima si riflette in frammenti emotivi, ricordi sfocati e momenti di smarrimento. Il brano diventa specchio di un sentire fragile, sospeso tra sogno e realtà, tra parole non dette e distanze che non si colmano. La voce di Luca si fa confessione, accompagnata da un tappeto sonoro indie ed emo-pop che amplifica il senso di vicinanza emotiva. Un pezzo che non consola, ma abita il vuoto lasciato da una relazione finita.
Iniziamo conoscendoti meglio, come e quando è iniziata la tua passione per la musica?
La mia passione per la musica non ha un inizio netto. Non c’è stato un giorno preciso in cui ho pensato ora voglio fare il cantante. È qualcosa che si è insinuato lentamente, quasi in punta di piedi, ma con una forza che non ho mai saputo ignorare. A quattro anni, forse anche prima, ero già legato visceralmente a una chitarrina giocattolo che portavo ovunque. Non era un gioco. Era un’estensione. Un modo, senza saperlo, per restare in contatto con qualcosa che non riuscivo ancora a nominare.
Crescendo, quel legame non si è affievolito. Si è trasformato. Ho iniziato a studiare chitarra, poi canto, poi scrittura. Ma ancora prima dello studio, c’era il bisogno. Quello di raccontare, anche solo a me stesso, quello che avevo dentro. La musica non mi ha mai lasciato. Anche nei momenti in cui avrei voluto metterla in pausa. Anche quando sembrava che non portasse da nessuna parte.
Dopo il liceo ho cominciato a prendere questa urgenza più sul serio. Ho scelto un nome d’arte, all’inizio era Lucido. Poi, con un cambio di rotta che rispecchiava anche un cambio di sguardo su me stesso, è arrivato Luca V. Un’identità più pulita, più aperta. E da lì è iniziato un cammino diverso.
Oggi Luca V non è solo il nome con cui firmo le canzoni. È un luogo, uno spazio mentale in cui posso permettermi di essere autentico. Dove posso raccontare senza filtri, senza pose. Dove la musica non è solo una passione, ma un modo per restare vivo. Anche nei giorni più vuoti. Anche quando le parole mancano. E forse proprio in quei momenti, scrivere diventa più urgente. Più vero.
Parlaci del tuo nuovo singolo. Com’è nato il testo? Qual è la sua storia?
Certamente! Il mio nuovo singolo, Pelle di Prozac, non nasce da un’idea precisa. Non è il frutto di una riflessione a tavolino, né il risultato di una pianificazione strategica. È venuto fuori in una notte qualunque, una di quelle in cui ti senti spento ma non riesci a dormire, in cui non c’è rumore fuori ma dentro è tutto un sovraccarico. Ho aperto Note, ho scritto frasi sconnesse, immagini isolate, parole che sembravano scivolarmi dalle mani. Poi ho premuto “registra” sull’iPhone. E nel silenzio della stanza, quasi senza accorgermene, ho cominciato a cantare.
Pelle di Prozac è una metafora, certo, ma anche una sensazione fisica. Racconta quella distanza che si crea tra ciò che provi e ciò che riesci a dire, tra quello che hai dentro e quello che lasci vedere. È come indossare una seconda pelle che ti protegge, ma ti disconnette. Ti impedisce di sentire troppo, ma ti impedisce anche di sentire davvero. È una protezione che diventa prigione.
Il testo è arrivato velocemente, forse perché era lì da tempo. Non ho dovuto inventare nulla, ho solo trascritto un caos che mi abitava da mesi. Ma una cosa è scrivere, un’altra è decidere di far uscire qualcosa di così personale. Ci ho messo un anno e mezzo per pubblicarla. Non perché il brano non fosse finito, ma perché io non lo ero. In quel periodo stavo affrontando una depressione, una di quelle che ti rendono tutto distante anche se sei in mezzo alla gente. Anche se stai lavorando, parlando, vivendo.
Non è stato semplice. Ogni volta che riascoltavo la traccia sentivo che mancava qualcosa. Poi ho capito che quello che mancava non era nella canzone, ma in me. Stavo aspettando un momento in cui sentirmi pronto. E quel momento, in realtà, non sarebbe mai arrivato. Così ho smesso di aspettarlo. E ho scelto di lasciare andare il pezzo così com’era. Crudo, fragile, non del tutto definito. Ma vero.
In studio ho lavorato con Lorenzo Avanzi. Abbiamo cercato un suono che non coprisse, ma che accompagnasse. Qualcosa che stesse in piedi da solo, ma che lasciasse spazio al vuoto. Batteria leggera, synth sospesi, pochi elementi, nessuna sovrastruttura. Volevo che tutto fosse in punta di piedi, come chi entra in una stanza dove qualcun altro sta piangendo.
Oggi sento che questo brano rappresenta una parte essenziale del mio percorso. È diverso da tutto quello che ho fatto finora, ma allo stesso tempo è esattamente il cuore di ciò che sono. Non cerca di piacere, non chiede attenzione. Semplicemente esiste. E per me, questo è già tanto.
Se chi ascolta si ritrova anche solo in una frase, in una pausa, in una di quelle immagini scomposte che popolano il testo, allora Pelle di Prozac ha raggiunto il suo scopo. Non voglio spiegare il dolore. Voglio solo condividerne il peso. Anche solo per un attimo. Anche solo con chi sa cosa vuol dire restare fermi mentre tutto si muove.
Cosa puoi dirci riguardo il videoclip del singolo?
Il videoclip di Pelle di Prozac è stato pensato come un’estensione visiva della canzone, non come un accompagnamento decorativo. Non volevo raccontare una storia, non nel senso tradizionale almeno. Volevo creare uno spazio sospeso, un’atmosfera che rispecchiasse quella sensazione di vuoto ovattato che per me è al centro del brano. Il video è fatto di illustrazioni essenziali, monocromatiche, con uno sfondo color seppia che richiama il tempo che passa ma non guarisce, la memoria che scolora ma non dimentica.
I movimenti sono minimi, quasi impercettibili. Le immagini sembrano ferme, ma qualcosa dentro si muove. Ecco, esattamente come quando ci si sente emotivamente anestetizzati. Ho voluto inserire pochi simboli, ma carichi di significato. Il ragazzo seduto su un letto, rivolto verso una finestra mentre fuori piove, non è solo una figura malinconica. È una metafora del tempo interno che si blocca. Dell’attesa che non ha più nemmeno un oggetto.
C’è anche uno specchio. Una scena volutamente statica, quasi gelida. Il protagonista si guarda, ma quello che vede non lo riconosce. Lì c’è tutto il peso della frattura tra come ci sentiamo e come appariamo. Tra ciò che vorremmo comunicare e ciò che rimane chiuso dentro.
E poi quel cuore. Rosso. L’unico elemento cromatico pieno. Gocciola tra le mani, ma non è una scena violenta. È il simbolo di un’emozione trattenuta troppo a lungo. Di un dolore che si fa liquido, che esce senza esplodere. Un’immagine volutamente essenziale, che lascia lo spettatore libero di sentirla o di attraversarla senza comprenderla fino in fondo.
Il videoclip di Pelle di Prozac non cerca lo shock. Non urla. Non spiega. Esiste in quello spazio in cui spesso ci ritroviamo quando le parole non bastano. È fragile, come il brano. E proprio per questo, per me, è forse il modo più sincero di tradurre visivamente un pezzo che nasce dalla sottrazione, dall’incertezza, da una voce che cerca di farsi sentire anche quando trema.
Non ho voluto creare un prodotto visivo perfetto. Ho voluto creare un’esperienza emotiva. Una finestra aperta su un interno. E se chi guarda si sente toccato anche solo per un istante, allora vuol dire che quel silenzio, così pieno, ha trovato qualcuno disposto ad ascoltarlo.
Quali emozioni provi quando canti?
Quando canto non indosso più niente. Né ruoli né pensieri né protezioni. È come se qualcosa scivolasse via, lasciando spazio a una versione di me più nuda, più vera, forse anche più fragile. Non sempre mi sento al sicuro mentre lo faccio, ma è proprio lì che tutto diventa autentico.
Le emozioni che provo cambiano di volta in volta. A volte sono leggere, come un respiro che si apre. Altre sono fitte, dure, difficili da governare. Dipende dal brano, certo, ma dipende anche da come mi sento quel giorno. Perché ogni canzone, anche la stessa, suona diversa ogni volta che la canto. Non è mai identica. Cambia con me, con il mio stato d’animo, con il modo in cui mi alzo la mattina o con quello che non riesco a dire a nessuno.
Ci sono canzoni che mi fanno tremare le mani, per quello che contengono. Sono le più intime, le più scoperte. Quelle che ho scritto senza pensare a chi le avrebbe ascoltate. Quelle che mi sono servite prima di tutto per stare in piedi. Cantarle non è liberatorio nel senso semplice del termine. È più simile a un confronto, a volte duro, a volte dolce, con parti di me che cerco di comprendere.
C’è anche il silenzio che arriva subito dopo. Ed è un silenzio diverso, pieno, denso. Come se tutto si fosse detto lì, in quei pochi minuti. Quando lo sento, so che qualcosa è successo davvero. Che non ho solo eseguito. Che c’è stata presenza.
E poi succede anche un’altra cosa. Quando canto e sento che dall’altra parte qualcuno si connette, si ferma, si riconosce. Non serve che lo dica, non serve che lo guardi. Lo sento. Ed è una delle sensazioni più potenti che conosca. È come costruire un ponte invisibile tra due vulnerabilità. Ed è lì, in quell’istante, che capisco perché faccio quello che faccio. Non per apparire. Ma per rimanere. Anche solo per un attimo. Anche solo in una voce che si spezza.
I tuoi progetti futuri? Qualche anticipazione?
I progetti futuri non sono mai stati così vivi, anche se ancora in parte indefiniti. Sto lavorando a nuova musica ogni giorno, spesso senza sapere esattamente dove mi porterà. E forse è proprio questo il bello. Non c’è una meta fissa, ma una direzione che sento mia. Nei prossimi mesi ho intenzione di pubblicare una canzone al mese. Ogni singolo sarà come una piccola istantanea, un frammento di ciò che sto attraversando. Non scrivo per costruire un’immagine, scrivo per restituire qualcosa che altrimenti resterebbe inespresso.
Parallelamente sto portando avanti la costruzione di un album. Non so ancora quando uscirà, ma so cosa voglio che contenga. Non solo canzoni, ma pause, spazi, transizioni. Voglio che sia un lavoro coerente, ma non chiuso. Che lasci entrare chi ascolta, senza guidarlo troppo.
A livello visivo sto immaginando un’estetica più matura, meno decorativa. Qualcosa che non accompagni soltanto la musica, ma che la espanda. Sto collaborando con illustratori e creativi per sviluppare una narrazione parallela. Non si tratterà solo di video musicali. Saranno racconti visivi, frammenti emotivi, piccoli mondi che si aprono e si richiudono in pochi secondi.
Infine c’è un’idea laterale, che tengo ancora un po’ protetta. Un progetto parallelo, forse con un altro nome, forse completamente anonimo. Qualcosa di più crudo, meno strutturato, nato dall’urgenza e non dal pensiero. Non so ancora se lo mostrerò a tutti. Forse resterà solo un esercizio privato. Ma nel frattempo lo sto coltivando. In silenzio. Perché alcune cose hanno bisogno di crescere lontano dal rumore. Solo così possono diventare vere.