Tra Cina e Usa siamo arrivati alla convocazione degli ambasciatori, con Pechino che protesta contro le ingerenze di Washington. Questo perché alla sfida geopolitica di lungo termine, lanciata dalla Repubblica popolare per diventare la nuova superpotenza globale, si è aggiunta quella elettorale di Trump, che vuole usare lo scontro con Xi per guadagnare voti in vista del 3 novembre, a scapito dell’avversario democratico Biden. In questo quadro l’Italia ha un ruolo complicato da giocare per la disputa sull’assegnazione a Huawei del nostro network 5G, che ci trasforma nel vaso di coccio a rischio di stritolamento. Proprio ieri, infatti, la Casa Bianca ha inviato un messaggio alla Stampa, con cui lascia capire che Trump prenderebbe un’eventuale scelta negativa da parte di Roma come un’offesa personale.
Martedì il presidente ha firmato l’Hong Kong Autonomy Act, legge approvata all’unanimità dal Congresso per sanzionare chi mina la libertà dell’ex colonia britannica, più un ordine esecutivo per toglierle il trattamento preferenziale di cui godeva. Il ministero degli Esteri cinese l’ha presa molto male, definendo le azioni di Trump «un’interferenza» negli affari interni, e quindi ha convocato l’ambasciatore americano Terry Branstad per sollecitarlo a «correggere l’errore». Per ora siamo alle schermaglie diplomatiche, ma la nuova “Guerra fredda” sembra dietro l’angolo, che sia tecnologica o militare, come fanno temere le manovre in corso delle portaerei Reagan e Nimitz nel Mar Cinese Meridionale.
Questi eventi seguono in realtà due binari diversi. Il primo è la sfida geopolitica di lungo termine lanciata da Pechino a Washington, che riguarda la supremazia tecnologica, militare ed economica, e trova una riposta bipartisan compatta negli Usa. Il secondo è l’interesse elettorale di Trump, che spiega il suo cambiamento di linea tra febbraio e marzo. L’anno scorso il presidente era concentrato solo sul negoziato commerciale con Xi: lo stesso ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, ha rivelato nel suo libro che gli aveva chiesto di aiutarlo nella rielezione. Quindi non voleva fattori di disturbo, magari da parte dell’establishment militare e di politica estera, più concentrato sulla sfida di lungo termine. L’intesa preliminare era stata raggiunta a gennaio, ma era una piccola cosa: 200 miliardi di dollari di beni in più acquistati dalla Repubblica popolare, utili per accontentare gli agricoltori di stati come l’Iowa, che Donald deve vincere per restare alla Casa Bianca. Il vero obiettivo però era negoziare un secondo accordo più ampio, da sbandierare in campagna elettorale. Perciò fino a febbraio Trump aveva elogiato Xi, difendendo anche la sua opaca gestione del Covid.
A marzo però l’epidemia è scoppiata negli Usa, in buona parte per i ritardi del presidente nel contenimento, perché temeva che provocasse la recessione alla vigilia del voto. Trump si è trovato nelle necessità di un capro espiatorio, e lo ha individuato nella Cina, con un doppio obiettivo: scaricare le sue colpe su Pechino, e accusare Biden di essere troppo morbido verso il nemico, anche perché questo messaggio dovrebbe aiutarlo con i lavoratori degli stati contesi nella Rust Belt e nel Midwest. Perciò ha iniziato ad attaccare, dicendo che non vuole più parlare con Xi o negoziare il secondo accordo commerciale, perché tanto sarebbe impossibile, e comunque non gli sarebbe più così utile sul piano elettorale.