redazione Pino Attanasio
direttore responsabile Carlo Ferrajuolo
I vicoli stretti, il vociare della folla, l’umidità, il profumo di salsedine. Camminare a passo svelto tra
palazzi storici, chiese e monasteri, testimoni silenziosi dello scorrere del Tempo, della Storia di
uomini e donne, di re e regine, di vescovi e papi, dove un popolo dalle radici profonde, che si
diramano lungo un tempo non del tutto scomparso, continua a vivere. Tra il mare di turisti che scorre
inarrestabile, ritmicamente, si scorgono artigiani, artisti, poeti e musicisti che si fanno voce e visione
di un passato non ancora dimenticato.
Ogni muro, ogni manifesto strappato e consunto dalle
intemperie, ci ricordano che il presente è un richiamo a ciò che è stato, spesso difficile e ricco di
contraddizioni. Fin dalla sua fondazione, Napoli è stata caratterizzata da una dualità peculiare, a
partire dal mito della sirena Partenope, una devozione molto radicata nei nostri antenati e il cui
retaggio si percepisce ancora oggi; la doppia natura di un popolo diviso e allo stesso tempo tenuto
insieme dal rapporto tra mare e terra, luce e ombra, tra primavera e inverno – testimoniato dai resti del
culto di Cerere, ancora oggi presenti in vari punti della città – impregna il centro storico, dove tra
negozi, chiese e palazzi storici, troviamo materiali di spolio, stele ed edicole dedicate alle dee e agli
imperatori romani. La leggenda aurea tramanda la profezia che la Sibilla fece all’imperatore Augusto:
sarebbe sorto un re nato da una Vergine, sarebbe stato più grande di lui. Così il Cristianesimo ha
sovvertito le regole di quel mondo, spesso inglobando e trasformando un paganesimo oggi sopito, ma
ancora rintracciabile nell’indole superstiziosa e nelle tradizioni di un popolo che vive sulla soglia, in
un ritmo continuo come quello delle onde del mare, che non cade nell’oblio della globalizzazione e
della turistificazione di massa che sta mettendo a repentaglio l’identità di questa città. Le
stratificazioni del pensiero e della città stessa di Napoli costituiscono il cardine su cui si sviluppa
questa mostra.
Suddivisa in tre sezioni – Portrait collage, Archetypes e Urban – la mostra, fortemente voluta dal
Direttore Paolo Giulierini, si dispiega all’interno delle sale della Villa dei Papiri del Museo
Archeologico Nazionale di Napoli. In un dialogo ritmico tra la città – fuori – e il museo – dentro,
attraverso l’accostamento di opere e immagini che rappresentano una memoria collettiva, archetipica,
scaturisce inaspettatamente una riflessione sul rapporto tra la mitologia classica e una mitologia
contemporanea. Il mito, inteso nell’accezione di G. Durand, non è traducibile o decifrabile, è presenza
semantica e contiene il suo proprio senso. Risulta evidente il ruolo catalizzatore del reperto
archeologico, della sua stratificazione nella Storia, nel processo artistico e nella forza espressiva del
gesto, in relazione al contenitore museo, custode della memoria collettiva. Come sottolineato da
Roberto Gilodi – durante la due giorni di incontri intorno al testo di Bredekamp, presso il Goethe
Institut di Torino del 2017 – «Questa spontaneità metamorfica dell’opera che si sottrae a una
programmazione a priori è ciò che le restituisce una funzione storica precisa nell’eterno avvicendarsi
delle attese del pubblico e soprattutto reclama un interlocutore in grado di coglierne lo status vivente».
Attraverso un percorso che dalla memoria storica e collettiva rielabora e utilizza immagini iconiche
classiche e contemporanee, si è cercato di intessere una narrazione di forme, fornendo un vocabolario
visivo che rimanda, seppur da lontano, all’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg, svelando l’energeia
delle immagini, presente tanto in un brandello di manifesto strappato dal muro in un vicolo della città
quanto in un bronzo antico. Il concetto di performatività, teorizzata da Bredekamp, che rende efficace
la veicolazione di queste opere, è insita nel gesto e nel processo creativo stesso; strappare i manifesti
dai muri del centro storico, il loro riassemblamento e la stesura di pigmento acrilico che riproduce
forme classiche, veicolano in modo significante il messaggio profondo che questi artisti propongono.
Se riportiamo la mente all’opera The Naked City, collage realizzato da Guy Debord e Asger Jorn nel
1957, in cui viene ricostruita una mappa della città di Parigi in frammenti collegati da frecce rosse,
potremo forse cogliere un’assonanza tra la riflessione surrealista sulla città e sul concetto di dérive che
attraversa ancora oggi i vicoli di Napoli, nella sua malinconia, nella sua dualità, nel passaggio rapido
dal buio di stretti vicoli allo zenith di grandi piazze senza ombre, senza alberi.
La riflessione che parte dal dialogo tra le opere della serie Portrait collage – collage con ritratti,
dipinti su tela, di personaggi iconici non solo della scena partenopea – e quelle della collezione
permanente del museo, rimanda all’essenza grecale ancora oggi insita in questi luoghi. A partire dal
collage-ritratto di Maradona, questa serie raggiunge una prima maturazione, portando gli artisti
all’attenzione dei media internazionali e inserendoli in un documentario su Napoli prodotto dalla nota
rete televisiva di Al Jazeera. Successivamente, cinque Portrait collage vengono acquisiti dal Progetto
Paterno di Cosenza, Museo riconosciuto dal Sistema Museale Nazionale del Ministero della Cultura e
dalla Regione Calabria.
Nella serie Archetypes, composta da grandi collage su tela, sono stati ricomposti pezzi di manifesti
strappati dai muri della città, completati da interventi pittorici e da stencil raffiguranti statue, affreschi
e mosaici iconici presenti nella collezione permanente del Mann. Questa serie nasce come
prolungamento ed evoluzione dei Portrait collage, dove i soggetti ritratti non sono più le icone pop
contemporanee, ma i miti di un antico passato, che ancora impregnano l’identità visiva e culturale di
Napoli. Il primo ad essere stato realizzato è la Danaide, qui in dialogo con le statue in bronzo della
Villa dei Papiri raffiguranti le figlie di Danao, protagoniste del triste mito, relegate da Zeus nel Tartaro
e condannate per l’eternità a versare acqua in un vaso dal fondo bucato. Lo studio dei Corridori, qui
esposti in collezione permanente, unitamente alla riflessione sull’opera di Mimmo Jodice, ha portato
gli artisti alla creazione dei quattro collage raffiguranti uno dei Corridori, ottenendo un risultato altro.
Lavorando sullo sguardo e sull’espressione emotiva, quasi esasperata, l’intento forse è una domanda,
in relazione alla vita frenetica cui si è sottoposti in un una grande metropoli e alle angosce, alle
dipendenze che, purtroppo, sempre più spesso ne scaturiscono.
Urban è una serie di collage digitali che ritrae, con l’ironia amara insita nella natura napoletana, la
bellezza e l’abbandono, le contraddizioni che rendono unica questa città, ancora oggi così antica,
vibrante, lavica, in un costante movimento tra pacifica sospensione e caos. Un caos nell’accezione che
deriva da Deleuze, quindi non inteso come disordine bensì come «[…] velocità infinita con cui si
dissipa qualunque forma che vi si profili. E’ un vuoto che non è un niente, ma un virtuale che contiene
tutte le particelle possibili e richiama tutte le forme possibili, che spuntano per sparire
immediatamente, senza consistenza né referenza». Ecco dunque, accanto a cumuli di rifiuti, il Satiro
ebbro riprende vita, decontestualizzato e collocato idealmente in un’ambientazione altra; l’Atlante,
che sorregge il peso della sfera celeste sulle proprie spalle, si fa testimone inerme del profondo
disagio abitativo vissuto e sopportato da troppi e da troppo tempo. Sotto lo sguardo severo di un altro
Ercole Farnese che protesta contro la gentrificazione del centro storico, la città continua a svuotarsi
dei suoi abitanti. Potrà dunque sopravvive l’anima di Napoli a tutto questo? La Storia ci insegna che è
possibile.
Serena Calò
Storica dell’Arte